My Year in Reading 2020

Con grande ritardo faccio la lista dei libri del 2020 letti nel 2020 che mi sono piaciuti di più, e nel farla mi rendo conto che i tre libri che mi sono piaciuti di più sono tre libri scritti da sceneggiatori, o comunque da scrittori che sono finiti per diventare anche sceneggiatori. Altra cosa che noto è la presenza di testi che possono essere in qualche modo derubricati come “romanzi dell’antropocene,” segno se non della centralità almeno dell’importanza pressoché indiscutibile di certi temi.

[1] Charlie Kaufman, Antkind

Si scrive Antkind e si legge Unkind, ossia scortese, poco gentile, non buono, come scortesi e poco gentili sembrano essere diventati un po’ tutti i contemporanei della fine del mondo. Quello di Kaufman è a tutti gli effetti un romanzo di genere, nel senso che appartiene almeno a due diversi generi ormai codificati, quello del Grande Romanzo Americano e quello del Romanzo-Mondo. Verrebbe da dire anche che appartiene al sotto-genere del “romanzo wallaciano” se non fosse che i suoi debiti Kaufman in realtà li paga più a Pynchon (più quello di Against the Day e di V) e soprattutto a Vonnegut. Il nome di Wallace è comunque un nome che continua a venire a galla ogni volta che si tenta di parlare di Antkind, vuoi perché al centro di tutto c’è quella stessa ricerca di un nuovo umanesimo che animava Wallace, vuoi perché l’abbrivio del romanzo ricorda un po’ la filmografia di James Incandenza: qui Balaam Rosenberger Rosenberg, un ex regista rimasto sempre aspirante tale e con una fama di culto più immaginata che reale, si ritrova a doversi riciclare come critico cinematografico, anche qui con risultati blandamente fallimentari. Rosenberg incappa però in un fantomatico film, una pellicola realizzata da un uomo di colore lungo un periodo di novanta anni e che dura tre mesi. Rosenberg assiste estasiato al film, decide di portarlo alla luce, intuendo un portato rivoluzionario, ma il film va distrutto in un incendio. Unico superstite un fotogramma bruciacchiato, che Rosenber usa per ricordare l’intero film ricorrendo a diversi espedienti. Tutto il libro racconta i tentativi di ricreare la pellicola, tra cose ricordate, cose inventate, scherzi della fantasia e della memoria, sguazzando in un lago di riferimenti cinematografici e soprattutto, tra tutti i temi ricorrenti nel mondo del Kaufman sceneggiatore. Antkind è il libro che serviva, fortunatamente lontano da certi orpelli stilistici e formali, è un libro che farà ridere, riflettere, cambiare alcune idee, incaponirsi su altre, qua e là potrà anche annoiare un po’ ma senza stancare. Insomma è esattamente il libro che ci si poteva aspettare da uno come Kaufman.
Prossimamente per Einaudi.

[2] James McBride, Deacon King Kong

Non ho la benché minima esitazione a affermare che Deacon King Kong è uno dei migliori libri dell’anno, scritto dalla mano sicura e con l’occhio dello sceneggiatore di James McBride, già co-sceneggiatore per Spike Lee e già autore di un libro che oltre a vincere il National Book Award è diventato da poco una mini serie tv (The Good Lord Bird). L’occhio dello sceneggiatore c’è, e si nota soprattutto nel modo in cui riesce a costruire personaggi vividi, fino dalla carrellata iniziale, nel primo capitolo, dove McBride riesce a costruire un mini-mondo introducendo a cascata una serie di personaggi, quelli che saranno gli attori principali e le comparse del libro che seguirà. Deacon King Kong è di base un romanzo storico ambientato nella Brooklyn del 1969, pre-gentrificazione e ancora popolata da “minoranze” americane, italiani, afro-americani, ispanici e irlandesi, spiantati, poveri cristi che riescono a andare avanti solo con una buona dose di speranza, mentre dall’alto Manhattan guarda tutti con violenta indifferenza. Ma Deacon King Kong è anche un noir con tanto di mafiosi, spacciatori, assassini e poliziotti, e qui McBride riesce benissimo a mescolare toni e registri, e a passare da capitoli intimisti e accorati a altri capitoli grotteschi e efferati, in perfetto stile tarantiniano, o meglio, nello stile post-tarantiniano di serie televisive come Fargo, e a condire tutto con pochi mirati intermezzi di comicità quasi slapstick.
Da noi uscirà per Fazi.

[3] Charles Yu, Interior Chinatown

Altro libro di uno sceneggiatore che riesce a dare freschezza a una narrativa che spesso purtroppo tende a appesantirsi con orpelli stilistici e formali. E dire che qualche orpello formale c’è anche qui, essendo Interior Chinatown un libro scritto e presentato come il testo di una sceneggiatura, uno script da recitare, un canovaccio per personaggi in cerca di un loro ruolo tanto nella finzione quanto nel mondo reale. Interior Chinatown ti dice fin da subito che vuole essere letto come una serie televisiva in corso d’opera: un poliziesco piuttosto classico intitolato Black and White che avrebbe luogo al Golden Palace Restaurant, nel bel mezzo di una comunità asiatica. Ci sono una coppia di poliziotti (lui nero, rude e atletico, lei bianca, avvenente e comprensiva), un omicidio e Willis Wu, garzone di ristorante con ambizioni attoriali, aspira al ruolo di Ragazzo Kung Fu, ma sa di dover risalire la scalinata da Maschio Orientale sulla Sfondo a Uomo Asiatico Morto a Uomo Asiatico Generico Numero Tre. Nella dialettica che Charles Yu costruisce tra finzione e realtà e tra schemi di personaggi e ruoli che ci autoassegnamo nella vita reale si nota tutta l’esperienza che ha fatto come staff-writer per Westworld, come nelle uscite umoristiche si nota quella che ha invece fatto come consulente di produzione per Lodge 49, ma Charles Yu è bravo soprattutto a usare elementi metanarrativi senza scadere nell’esercizio di stile e a costruire un romanzo multiforme che tocca questioni razziali e multi-culturali senza cadere nei cliché di un genere narrativo fin troppo abusato.
Da noi esce per La Nave di Teseo.

[4] Don DeLillo, The Silence

Diranno che DeLillo ha fatto il compitino, che ha scritto un altro testo rarefatto e privo di una vera e propria trama, che ha trasformato una piece teatrale in una specie di novella, scritta tra l’altro in generoso Courier non giustificato. La risposta a tutti quei commenti è: yaaaaaawwwwwwnnnn. The Silence è in realtà uno dei testi più riusciti di DeLillo, almeno tra quelli della sua terza fase, quella che grossomodo inizia dopo Underworld. Sorprende come DeLillo riesca a mettere così tante cose in così poche pagine e come in poche pagine riesca a cogliere quell’attimo che segue immediatamente se non una catastrofe, almeno la paura di una catastrofe imminente. Indebitamente legato al Covid e alla pandemia che abbiamo dovuto conoscere, in realtà The Silence descrive uno scenario esattamente opposto, cioè uno scenario in cui a chiudersi non sono le relazioni sociali, ma quell’unica cosa che durante i lockdown causa Covid era rimasta aperta ossia le strutture di comunicazione telematica e virtuale, televisioni, radio, internet, in una parola: la tecnologia. DeLillo parte da qui per costruire una novella che spesso assume i tratti di un testo teatrale sospeso tra Beckett e il primo Wittgenstein e lo fa dialogare con uno dei suoi libri più belli e sottovalutati, End Zone (qui citato verbatim in un paio di punti), e di End Zone riprende il tema filosofico nascosto: “begin to record the overflowing world,” ricominciare a “formulare di nuovo il mondo straripante.”  Qui la recensione completa.
Esce a febbraio per Einaudi.

[5] Lydia Millet, A Children’s Bible

Lyida Millet è purtroppo poco conosciuta qua in Italia. Peccato perché è una delle realtà più eclettiche e multiformi nell’odierno panorama narrativo statunitense e una scrittrice che riesce a variare dai pastiche grotteschi e surreali come George Bush, Dark Prince of Love, i racconti di Love in Infant Monkeys o il cooveriano Everyone’s Pretty a testi caratterizzati da stile e contenuti più poetici come My Happy Life e How the Dead Dream a testi che girano attorno a problematiche ambientali legate soprattutto al climate change, tra cui questo A Children’s Bible. Un po’ Lord of the Flies, un po’ riscrittura molto laterale della parabola di Noè, un po’ romanzo di formazione e un po’ romanzo apocalittico, qui un gruppo di quasi adolescenti, cresciuti sostanzialmente senza le distrazioni del mondo contemporaneo iperconnesso e iper-informato, si trovano a essere i veri adulti quando devono affrontare i pericoli della minaccia di catastrofi ambientali e cambiamenti climatici. Lydia Millet riesce con gran maestria a incastonare riferimenti biblici e riferimenti scientifici senza che né i primi né i secondi soffochino la storia. 
Esce per NN Editore.

[6] Jonathan Lethem, The Arrest

Dalla sinossi poteva sembrare un noir pynchoniano in stile Inherent Vice, invece The Arrest è un romanzo post-apocalittico fantascientifico, un po’ al crocevia tra Ballard, Dick e certa narrativa sci-fi old school degli anni ’60 se vogliamo. Curioso che lo si possa leggere come una sorta di seguito di The Silence di Don DeLillo: per certi versi DeLillo catturo l’attimo in cui avviene quell’Arresto che è poi la colonna vertebrale del libro di Lethem. Ma nonostante la sua facciata post-apocalittica e fantascientifica, The Arrest è un romanzo che riesce a smarcarsi molto bene dalle definizioni e restrizioni di genere. È un romanzo soprattutto fatto di personaggi. Personaggi semplici e forse proprio per questo efficaci: il reietto, la bibliotecaria autoreclusa in biblioteca, i guerrieri in stile Mad Max, Maddy, la survivalista hard-core che viveva già il mondo post-apocalittico nel passato come una distopia presente, e Alexander Duplessis, l’antieroe lethemiano, sooprannominato Journeyman, un uomo senza qualità, verrebbe da dire, sopravvissuto quasi per caso e che forse grazie alla sua assenza di tratti forti finisce per essere un collante del novo mondo, finché non arriva Todbaum, a bordo di una strana macchina futuristica. Todbaum è un vecchio amico di Journeyman, e questo innesca una serie di flashback dove apprendiamo che i due erano scrittori in tandem e il romanzo diventa una meta-narrativa sui generis, nella quale ci si chiede a cosa servano distopie, apocalissi e altre forme del romanzo dell’antropocene, e si mostra che la costruzione di un mondo reale è sempre una questione di scrittura, di organizzare e pianificare ciò che si ha in mano. 
C’è poca azione (cosa che per qualcuno può essere un limite) e qualche vezzo di troppo con inutili immagini inserite qua e là e che potevano benissimo essere evitate. Comunque per me il miglior Lethem da Dissident Garden.

[7] Teddy Wayne, The Apartment

Teddy Wayne continua la sua satira sugli ideal-tipi sociali che ci circondano, dopo la “vittima” della mascolinità tossica di Loner, dopo il geek che entra in crisi con i suoi valori morali quando si scontro con l’avidità di Wall Street di Kapitoli, e dopo la fama improvvisa che schiaccia la vita di un non-ancora-adolescente su The Love Song of Johnny Valentine, Teddy Wayne attacca da una parte il velleitarismo di aspiranti scrittori e dall’altra la sempre più marcata dicotomia tra radicali benvestiti e popolo sanguigno e autentico. Libro fresco e divertente, The Apartment è soprattutto una satira del mondo dei corsi di scrittura creativa immersa nel cuore degli anni ’90, specificatamente nell’autunno/inverno tra 1996 e 1997, alla Columbia, ossia uno dei programmi MFA più famosi e efficaci nei college statunitensi. Sullo sfondo c’è anche un raffronto tra due culture, quella del New England dell’io narrante, e quello del Midwest di Billie Campbell, suo deuteragonista, ma anche quello tra una visione del mondo vitalista, rurale, vicina e anticipatrice di certe inflessioni sovraniste odierne, e un radical chic-ismo blando e latente. Teddy Wayne è molto bravo a parlare (anche) dell’epoca Trump senza parlarne mai direttamente, ma mostrando come la dicotomia Mean Street vs. Wall Street in parte fosse già presente nella sua forma embrionale fin dagli anni ’90. 

[8] Emily Nemens, The Cactus League

Un romanzo sul baseball che in realtà non è sul baseball, e forse neanche un romanzo. Siamo a Scottsdale, in Arizona, dove un improbabile giornalista sportivo vuole profilare Jason Goodwyn, l’eroe fittizio del libro, esterno sinistro della fittizia squadra dei Los Angeles Lions, ma finisce per smarrirsi dietro le vite di un’accolita di comprimari che in qualche modo sfiorano la vita di Jason Goodwyn. I nove capitoli mimano i nove inning di una partita di baseball, e ciascuno forma una novella esemplare sull’equilibrio tra speranze e delusione che a un certo punto diventa la vita di tutti: quella delle ricche e annoiate mogli dei giocatori di baseball, come quella di Tamara Rowland, splendida quarantenne che di mariti giocatori di baseball ne ha avuti due e da due ha divorziato, o le speranze di William Goslig, una giovane promessa del baseball che potrebbero diventare le delusioni di Michael Taylor, l’allenatore dei battitori che ritorna in Arizona per scoprire che casa sua è stata saccheggiata e devastata. Nove racconti che insieme formano un curioso romanzo a incastri, sul modello di A Visit from the Goon Squad, e che come quello ha a che fare con i dispetti del tempo che trasformano le speranze in delusioni.

3 risposte a "My Year in Reading 2020"

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