Don DeLillo – “The Silence”

Don DeLillo, The Silence (Scribner, 2020)

C’è una tendenza diffusa a identificare un autore con le sue opere più ambiziose. Per DeLillo quelle opere sono i suoi romanzi degli anni ’80 e ‘90—White Noise, Libra e Underworld, soprattutto. Da qui nasce una malsana aspettativa che DeLillo debba scrivere altri libri come quelli. Aspettativa che da Body Art in poi è stata puntualmente disattesa, e puntualmente tutti i suoi testi del nuovo millennio hanno incontrato critiche, nasi storti, e gne gne gne vari. 

The Silence non fa eccezione.  Con le sue 116 pagine scritte larghe è in assoluto il suo “romanzo” più breve. Romanzo tra mille virgolette, non solo per la lunghezza tassonomicamente più vicina a quella di una novella che a quella di un romanzo, ma anche e soprattutto perché The SIlence ha tutto l’aspetto, il ritmo, le sequenze di una pièce teatrale a metà tra Beckett e l’icasticità del primo Wittgenstein. Non assomiglia ai grandi romanzi delilliani perché non vuole esserlo. Può essere invece un capitolo di un trittico ideale insieme a Body Art e a Point Omega: in tutti e tre si cerca di raccontare un tipo di assenza e mancanza. Oppure può essere considerato proprio una pièce teatrale in forma romanzata e insieme a Valparaiso e The Day Room essere letto come un’altra osservazione sulla fragilità dell’esser vivi.  

Volendo azzardare una periodizzazione delle opere di DeLillo, sembra plausibile individuare una prima fase nei romanzi dei periodi Houghton Mifflin e Knopf, da Americana  fino a Running Dog, con Amazons (probabilmente il libro più sottovalutato di sempre) a fare da spartiacque tra questa prima fase e la seconda fase della consacrazione, quella degli anni ’80 e ’90, da The Names a Underworld. Segue poi una terza fase dove DeLillo si richiude un po’ nella sua mente, si fa etereo, quasi ascetico, rarefatto. Se nella prima fase sembrava voler porre delle riflessioni sui meccanismi aggregativi della cultura pop (cinema, televisione, musica rock, football) e rielaborare alcuni generi (fantascienza, thriller, poliziesco), e nella seconda fase sussume tutto sotto il peso generalizzante della Storia, nella terza fase pare riprendere alcuni vecchi temi e ripensarli: la morte su Zero K, linguaggio e economia su Cosmpolis, assenza e vuoto su Body Art e Point Omega. Su The Silence riprende il dialogo con Wittgenstein e la filosofia del linguaggio che aveva iniziato su End Zone

A legare i due testi è anche il football: The Silence racconta di cinque persone che si apprestano a vedere insieme il Super Bowl del 2022 tra Titans e Seahawks: due coppie, Jim Kripp e Tessa Berens, perito assicurativo lui, lei poetessa che lavora part time per un forum on-line di consigli, e Max Stenner e Diane Lucas, coppia alto-borghese ormai più che di mezza età, a cui si unisce il trentenne Martin Dekker, ex studente di Diane, ora insegnante di fisica in un liceo.  Su The Silene a un certo punto sembra proprio di risentire Alan Zapalac che su End Zone dice di rifiutare “il parallelismo tra football e guerra. La guerra è guerra. Non abbiamo bisogno si succedanei dal momento che abbiamo l’originale.” Qui è Max che a proposito del football come “rituale fuori moda” dice “We’ve gone beyond all comparisons between football and war. World Wars in Roman numarels. Super Bowls in Roman numerals. War is something else, happening somewhere else.” Ma non c’è solo questo. Il football era solo apperentemente centrale su End Zone: un testo che trattava in realtà, di linguaggio, di limiti del linguaggio e di silenzio, sulla scia delle osservazioni di Wittgenstein sul Tractatus, ma anche di alcuni strascichi del positivismo logico e della separazione tra senso e metafisica.  

Su End Zone il silenzio è onnipresente. Viene definito “metallico,” “duro,” “minaccioso,” “avvolgente.” Taft Robinson è lì un giocatore di football che passa interi giorni in silenzio, senza proferire parola, intento a creare diverse “gradazioni di silenzio” e che vede la differenza tra il silenzio che precede l’ascolta della radio e quello che lo segue. Gary Harkness, protagonista di End Zone, vede tutti i gerghi specializzati come “varietà di silenzio,” forme di linguaggio che ormai faticano a avere un vero significato, e la sua preoccupazione è lacerare quei livelli gergali e “begin to record the overflowing world”: ricominciare a “formulare di nuovo il mondo straripante.” 

Quel chiacchiericcio che su End Zone diventa un silenzioproblematizzato, più che vissuto postulato come esercizio filosofico, su The Silence diventa rumore. Un rumore da cui ci nasconde, che ti affoga, che fluttua nell’aria, che esplode fragoroso. Il linguaggio gergale che si annulla nel chiacchiericcio di frasi fatte, formule, termini tecnici su End Zone, su The Silence diventa rumore di informazioni digitali che hanno come unica funzione quella di riempire i vuoti. Lo stesso Jim Kripp non ascolta quello che lui stesso dice, perché “he knew it was stale air.” 

Spacciato come testo che parla della crisi pandemica innescata dal Covid-19 e conseguenti lockdown, The Silence in realtà ha a che fare con l’esatto opposto: non c’è nessun isolamento coatto dove si è costretti a restare chiusi nella propria bolla telematica. Qui c’è un blackout che ti toglie l’unica cosa che ti viene concessa nei lockdown, ossia la connessione digitale e il suo flusso di informazioni, diventato ormai pressoché l’unica forma di comunicazione di cui sembriamo essere capaci. Su The Silence DeLillo cerca di mostrare “What happens to people who live inside their phones,” e cosa accade quando si è abituati così tanto a comunicare per monologhi digitali da non sapere più come si fa a parlare a qualcuno che non sia il proprio io riflesso, tanto da iniziare a pensare che le parole esistano perché esistono telefoni e dispositivi digitali su cui usarle e che una volta tolti questi, le parole cessano quasi di avere un loro significato.

Così Max inizia a fissare lo schermo nero del televisore e recitare brandelli di vecchie telecronache, o frasi fatte e espressioni di prassi nelle telecronache, fino a mostrare che quelle frasi, quelle parole, quasi non hanno più un significato perché non c’è più nessuna partita di cui sono la descrizione, “Commercials, station breaks, pregame babble,” e “half sentences, bare words, repetitions. … a kind of plainsong, monophonic, ritualistic, … pretentious nonsense.” Tutta la prima parte del testo è un tentativo di ricostruire il significato, a partire dalla fase ostensiva, nella quale si indica una cosa e la si nomina per edificare un ponte tra quella cosa e il pensiero. Max, Diane, Jim e Tess cercano di rinominare il mondo, o di procedere a una (ri)costruzione logica del mondo, come direbbe qualcuno. Si ripetono mezze frasi, azioni, verbi che sembrano parole diventate incomprensibili declamate a memoria (“We talk, we listen, we eat, we drink, we watch”), come I dialoghi dei film stranieri che Martin Dekker fa vedere ai suoi studenti, invitandoli a dare un senso alle parole che non conoscono solo ascoltandole—altro collegamento con End Zone dove Billy Mast seguiva un corso sull’Indicibile, che consisteva nell’imparare a memoria una poesia di Rilke, con l’unico prerequisito di non sapere il tedesco. Diane osserva che “They’re listen… and that’s what matters”: per dare un senso all’apparente brusio del mondo occorre per prima cosa ascoltare, e un’altra deformazione sociale delle tecnologie di informazione e comunicazione è aver trasformato gli esseri umani in esseri parlanti con scarsa propensione all’ascolto. Gli stessi personaggi di The Silence, dopo essersi sforzati di dialogare tra loro nella prima parte, si aprono a monologhi nella seconda, mostrando spesso di essersi dimenticati che ogni volta che parli, parli a qualcun altro.

Il linguaggio privato di referenti diventa glossolalia, e l’elemento glossolalico è un elemento che ritorna spesso nei testi di DeLillo, a esempio su Great Jones Street, o in forma modificata, nei linguaggi tecnici di End Zone e in quello scientifico di Ratner’s Star. Comunicare per lallazione, costruire del significato a partire da un’assenza di referenti è un modo di raggiungere il trascendente. DeLillo ne suoi testi opera un salto dal linguaggio letterario a quello religioso, spesso per mezzo della scienza esatta o della tecnologia (su questo rimando senza indugi all’ottimo Postmodern Belief di Amy Hungerford). Come DeLillo stesso ha detto in un’intervista, “Le scienze più pure generano sempre un sentimento religioso nelle persone.” Su The Silence quell’elemento scientifico è dato dall’ossessione del professore di fisica Martin Dekker per il Manoscritto del 1912 per la Teoria della Relatività Ristretta di Einstein, che Martin cita come mantra, quasi in estasi estensiva: “Dark energy, phantom waves, hack and counterhack,” “germs, genes, spores, powders,” e ancora “The beautiful and airy concepts of Space and Time.”  Esempi di tentativi di dire l’indicibile, per certi versi, o per lo meno può sembrare così per i non iniziati alla fisica teorica. Sempre nell’intervista con Tom LeClair DeLillo dice che “L’indicibile mira ai limiti del linguaggio. C’è qualcosa che non abbiano scoperti sul linguaggio? C’è di più? Forse è per questo che c’è tanto chiacchiericcio nei miei romanzi, Il chiacchiericcio può essere discorso frustrato, o può essere la sua forma più pura, un discorso alternativo.”

È stato detto e scritto che The Silence sarebbe un mezzo fallimento perché qui DeLillo pare scordarsi che i personaggi che mette in scena dovrebbero avere dei sentimenti, e che sono al massimo degli “ologrammi difettosi,” e “avatar che non riescono a passare per umani.” Ovviamente non è così. A uno scrittore horror interessano gli zombie, a DeLillo interessa quell’attimo in cui gli esseri umani diventano automi senza ancora accorgersi di esserlo. Su The Silence DeLillo coglie perfettamente i primi attimi di un blackout che potrebbe essere transitorio ma potrebbe anche essere l’inizio della fine del mondo: coglie l’attimo in cui la rassegnazione diventa inquietudine prima di diventare panico o paura, e in questo modo mostra come probabilmente abbiamo iniziato a perdere un po’ di umanità quando abbiamo iniziato a dare per scontato proprio quel linguaggio che ci rende una comunità, e progressivamente lo stiamo spogliando di senso logico.

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